CILE, PERU' ISOLA DI PASQUA
Diario di viaggio – 30 aprile 20 maggio 2006
Poche ore a Madrid prima di fare il grande salto
per il sudamerica. Fa impressione il
gigantesco aeroporto di Barrajas, nuovo di pacca e
talmente grande da avere una metropolitana al suo
interno. I tempi sono segnati sui cartelli, il nostro
imbarco è a 25 minuti dalla biglietteria.
Madrid gode fama di essere una città
anonima. Niente di più azzeccato, non ti lascia nessuna
emozione, ma ha servizi modernissimi, una metropolitana
efficiente e spaziosa, roba che in Italia ci sogniamo.
Noto con una punta di orgoglio che le carrozze sono
Ansaldo e mi chiedo: perché l’Ansaldo ha realizzato lo
stato dell’arte della tecnologia qui a Madrid e a Genova
ha prodotto una metropolitana ridicola? La tv della
metro trasmette le immagini dell’ultimo scatto di
Spencer Tunick, un fotografo americano che ieri ha
radunato 1200 persone nude nel centro di San Sebastian,
nei paesi baschi. Prendiamo un bus a caso che ci porta
in periferia, un anziano e distinto signore ascolta l’i-pod
con le cuffiette mentre la moglie lo accompagna. Mamma
mia, che disperazione vivere a Madrid.
Sul volo per Santiago del Cile mi
addormento prima di sorvolare il Portogallo e mi
risveglio che sono sopra a Rosario, in Argentina. Dodici
ore filate. L’aereo della Lan Chile ha un ottimo
servizio, ma perché i programmi video degli aerei sono
sempre così brutti? Anche Discovery Channel trasmette un
documentario inutile. Meglio un buon libro.
Alle sei del mattino passiamo le Ande.
Che impressione, sono cime oltre i 6000 metri, altro che
Alpi.
Santiago
ci accoglie alle sette del mattino del primo maggio. Non
c’è nessuno. Un’autostrada nuovissima e ipertecnologica
ci porta in città e si infila in un lunghissimo tunnel
sotto la metropoli. L’ha costruito la stessa impresa
spagnola che vorrebbe fondersi con Autostrade, ci spiega
il tassista. Se è così abbiamo tutto da guadagnare.
A Santiago inizia l’autunno, fa
impressione veder cadere le foglie. L’albergo è in un
quartiere lussuoso, raggiunto dopo aver attraversato
chilometri di baracche. Alla reception mi chiedono se
sono un habitué del Cile, visto che parlo un ottimo
castigliano. Vorrei far sentire questa affermazione al
professore di spagnolo, che mi ha schiaffato l’unico 18
della mia carriera universitaria a pochi giorni dalla
laurea: soffriva di un forte complesso d’inferiorità
rispetto alle altre materie di studio (“Date tutti
spagnolo come ultimo esame perché pensate che sia
facile...” – mi ha detto giustificando il basso
voto). Ma io ho vissuto mesi a Barcellona a casa di
spagnoli e – all’epoca dell’esame – andavo molto
orgoglioso del mio “idioma perfecto”.
Il
primo maggio è il peggior giorno dell’anno per visitare
Santiago. Tutto è chiuso e una manifestazione in centro
ha già dato luogo ad incidenti. I Carabinieros si
affrettano a chiudere le strade a rischio e la
metropolitana. Notiamo un Mac Donald’s con le vetrine
sfasciate. Se c’è una cosa globalizzata al mondo sono i
no global: tutti con le stesse bandiere del “Che”, tutti
a sfasciare Mac Donald’s, tutti (anche qui!) con la
kefiah palestinese. Un Carabiniero mi invita a
nascondere la macchina fotografica e a evitare le vie
della manifestazione. Andiamo verso il palazzo
presidenziale della Moneda (foto a
sinistra), che durante il colpo di stato di
Pinochet venne bombardato dall’aviazione. L’ufficiale di
picchetto ci fa entrare in maniera molto gentile, il
sottotenente canta l’inno di Mameli quando viene a
sapere che siamo italiani. Essere italiani qui è un
must, tutti ci vogliono bene per questo. Tutti sanno
dov’è Genova e chi sono “Los Xeneises”. L’ufficiale di
picchetto mi insegue dopo la visita alla Moneda e mi
restituisce il cutter che gli avevo consegnato
spontaneamente: lo porto sempre per autodifesa, è un
deterrente favoloso. Anche lui è d’accordo con me.
Visitiamo la centralissima Plaza de Armas,
il Mercado Central con il suo famoso ristorante “Donde
Augusto”, specializzato in pesce. Ci ferma un cameriere
e inizia a parlarci in spagnolo, poi ci chiede di dove
siamo e sfodera un genovese impeccabile. La padrona del
miglior ristorante di Santiago è zeneize (questa
volta senza la “X”) e il marito ne va orgoglioso.
Decidiamo
di andare sul Cerro San Cristobal per vedere la città
all’alto. Saliamo su un’ovovia tanto spettacolare per la
vista quanto traballante per la sicurezza. Due
chilometri sospesi nel vuoto. La vista dall’alto sarebbe
mozzafiato se lo smog non ricoprisse a capitale. Una
pianura a perdita d’occhio costellata di case e
grattacieli, a sinistra si stagliano alcun e montagne
fra i 5 e i 6000 metri. Scendiamo dal monte con una
funicolare tipo quella Zecca-Righi negli anni ’30, tutta
in legno scricchiolante, che sembra dover cedere da un
momento all’altro.
Santiago è veramente brutta, vialoni alla
Napoleone III, larghi per poter spazzare le rivolte
popolari a cannonate, cemento e poco altro. Brava gente,
però. I Carabinieros (la polizia militare) sono
gentilissimi e fanno tenerezza con quei mezzi
improbabili degli anni ’50, le moto da cross con cui
sfrecciano sul selciato e i cani lupo tipo Rintintin con
la copertina verde contrassegnata dai simboli del
battaglione di appartenenza.
Ceniamo al
“Venezia”, una locanda sulla via Pio Nono in cui era
solito mangiare Pablo Neruda. Manu prende uno stracotto
e io uno stinco di maiale innaffiato dal “Pisco sour”,
l’aperitivo locale. Alla fine sono 10 euro a testa, non
male per essere uno dei posti più cari del sudamerica.
Domani si va a fare un po’ di costa del Pacifico, alla
ricerca di una spiaggia da sogno sulla Panamericana e di
un pranzo a base di mariscos.
Ah, il costo del lavoro.
Il
costo del lavoro in Cile non è un problema: ci sono
migliaia di vigili e spazzini, centinaia di giardinieri
comunali, postini e persino decine di persone che
ripuliscono dalle cartacce il ciglio dell’autostrada.
Qui l’uomo costa meno della macchina. E vale meno. Ci
sono invalidi ovunque, ciechi a ogni angolo di strada e
tante, tante farmacia, luminose, colorate, giganti, una
di fronte all’altra a farsi concorrenza spandendo
ipocondria.
E poi ci sono ancora gli atlanti e le
enciclopedie. In una bancarella campeggia un gigantesco
libro dal titolo “Atlante del Cile e del resto
dell’universo”. Come se l’Istituto Geografico
Militare facesse la “Piantina di Via Moglia e
dell’Italia Nordoccidentale”.
Da
Santiago in due ore di bus si arriva a Viña del Mar,
città balneare decantata da amici cileni. Ci aspettiamo
di visitare una ridente località per poi affittare un
auto e lanciarci sulla panamericana che costeggia il
Pacifico fra spiagge e scogliere spettacolari. La realtà
si rivela ben diversa: dopo chilometri di vigneti
(Pinot, mi spiegano), appaiono chilometri di favelas che
danno il benvenuto a Viña. Il cielo è coperto e fa
freddo. La città con i suoi casermoni in riva al mare è
più triste di Rimini d’inverno, persino più brutta. La
spiaggia è lunga e sabbiosa, ma l’oceano è implacabile
oggi. La bruma impedisce di vedere lontano, il viaggio
sulla Panamericana sarebbe inutile. Poi la sosta al “Fellini”,
uno dei migliori ristoranti del Cile, che offre
pescado y mariscos (pesce e frutti di mare)
innaffiati da un pinot a 14 gradi, contribuisce a
intorpidire i sensi.
La televisione annuncia tensione fra
Bolivia e Spagna a causa della nazionalizzazione
delle imprese petrolifere, le frontiere forse verranno
chiuse. Decidiamo di cambiare il volo per La Paz
programmato per domattina, sperando che si calmino le
acque. Possibile che ogni volta che vado in sudamerica
mi chiudano le frontiere? Qualche anno fa avevo
rischiato di rimanere intrappolato in Paraguay durante
un tentativo di colpo di stato. Vabbé, puntiamo su Arica,
estremo Nord del Cile.
In Cile i trasporti funzionano
alla perfezione. I bus sono tanti e incredibilmente
regolari, la metropolitana di Santiago è capillare e in
ogni stazione un cartello avverte: “Non correre,
perché un altro treno sta già arrivando”. E’ vero: i
treni passano con la frequenza di uno al minuto.
I
giornali
parlano ancora degli scontri di piazza del primo maggio
(vi ricordate? Stavamo per finirci dentro) e della
difficile situazione con la Bolivia, la cui decisione di
nazionalizzare le compagnie petrolifere ha messo in
crisi il governo Lula (il Brasile è il principale
proprietario delle risorse energetiche boliviane), i
rapporti con la Spagna (anche loro sguazzano nel
petrolio boliviano) e con il Cile, che accusa La Paz di
fare una politica filocastrista.
Lasciamo Santiago
dopo aver gironzolato ancora per il centro; se i cileni
sono brutti, le cilene non sono da meno. Fatta questa
considerazione prendiamo un volo per Arica, estremo Nord
del paese andino.
Il volo è fantastico: sulla destra scorre
la costa del Pacifico, duemila chilometri di altopiano
che improvvisamente si tuffano in mare da altezze
vertiginose. E poi l’immenso deserto di Atacama.
In quattro ore di volo si vedono solo due città e tre
villaggi, immersi in una distesa rossa e arida con onde
spumeggianti che si frangono sulle scogliere a picco.
Arica
è una vera città sudamericana, i fili elettrici tagliano
l’aria a grappoli, la gente sorride e - incredibile
visu - le persone sono belle a vedersi! L’esatto
contrario dell’area centrale, dove tutti vanno di fretta
e non sorridono mai. Persino i poveri sono scomparsi.
Comanda il nulla, l’oceano maestoso davanti e il deserto
dietro. Un trenino costiero andrebbe fino al vicino Perù,
ma non sono sicuri tempi e orari. La vista dal treno,
però, dovrebbe essere spettacolare.
La frontiera si sente qui, dove più di un
secolo fa si è combattuta una sanguinosa battaglia fra
cileni e peruviani.
Un Pisco sour, poi via, a cenare
dal “Rey de mariscos”, il re dei frutti di mare,
che ci riempie di pesce e crostacei con sei euro a
testa. Pieni e soddisfatti rientriamo all’albergo: una
grande e bella hall che promette bene, ma le stanze non
mantengono le promesse e sembrano quelle di un due
stelle di Laigueglia.
Le
insegne.
Talvolta ne vedi di veramente strane. “Asilo infantile
Montessori” ti inorgoglisce un po’: siamo in uno dei
posti più lontani del mondo, a duemilasettecento
chilometri da Santiago e quindici dalla frontiera con il
Perù, intorno tutto deserto, l’acqua viene pompata dal
mare e conoscono il metodo Montessori. Manu, Mario,
Italia, Montessori, una volta tanto noi italiani non
siamo conosciuti per merito di un calciatore o di un
primo ministro.
Il
cartello di una bottega recita: “Vietato
l’ingresso ai cani, alle bici e alle moto”, come
se i ragazzini del posto si divertissero a entrare nei
negozi alla guida di un vespino smarmittante.
Arica è dominata da El Morro, un’aspra
montagna dove nel 1880 i cileni hanno battuto i
peruviani, conquistando questo lembo di terra assetato e
importante per le miniere di fosfati di Atacama.
Desolato, ma abitato da gente allegra, con in centro due
o tre opere di un illustre architetto francese,
Alexandre Eiffel, proprio quello della torre parigina,
che però non ha mai visto Arica: la chiesa
(foto a sinistra), la dogana, la stazione
ferroviaria sono state prefabbricate in Francia e
costruite qui in base ai progetti del celebre architetto
d’oltralpe.
Chi navigava trent’anni fa ricorda questo
posto come abbandonato da Dio. Oggi Dio c’è, ci sono
anche le spiagge, tanti pescherecci e le fabbriche di
conserva di pesce: ce ne accorgiamo andando a
cercare
una spiaggia a sud, il fetore è insopportabile.
La stagione è appena finita e la gente al
mare è poca, alcuni temerari fanno il bagno in mezzo
alla spuma creata dall’oceano. Andiamo alla ricerca di
un nuovo ristorante, la zuppa di polpo è unica, ma forse
il polpo non è tanto felice.
La sera prendiamo un taxi che, con un
prezzo concordato dopo un affannosa trattativa, ci porta
a Tacna, Sud del Perù. A Tacna ci aspetta il
pullman “Imperiale” che – nella notte – dovrebbe
portarci ad Arequipa, la seconda città del paese dei
lama.
Chi non
c’è mai stato non può avere idea di che caravanserraglio
sia una stazione di bus peruviana. Genti e merci di
tutti i tipi, sporcizia e televisori che mandano partite
di calcio italiano, ladruncoli e ladroni, nessuna
indicazione precisa. Insomma, un girone infernale che
contrasta nettamente con la ricchezza e pulizia della
cittadina di Tacna.
“Imperiale” è un attributo troppo pomposo
per una vaporiera che sbuffa, sedili sdruciti e brutti
ceffi a bordo. Ogni ora di viaggio sale la polizia a
bordo e controlla tutto e tutti per tre, quattro, cinque
volte. Noi veniamo risparmiati: siamo turisti e si vede
da lontano.
Alle quattro del mattino, con tre ore di
anticipo sull’orario previsto, siamo ad Arequipa,
disperati cerchiamo un albergo. Dopo tre vani tentativi,
ci arrendiamo davanti a “La casa di mia nonna”,
che si rivela un’ottima scelta.
Arequipa
è la tipica città coloniale spagnola. Belle chiese,
begli edifici e due vulcani attivi alti più di 5000
metri alle spalle. Sciami di taxi piccolissimi,
automobiline coreane che portano gente ovunque a pochi
centesimi di euro.
Il
monastero di Santa Catalina è bellissimo, colonne
arancio e blu, quadri, opere d’arte sacra di pittori
locali del ‘600. Bella anche la sua storia: qui venivano
portate le secondogenite dei nobili spagnoli, che però
non ci stavano a fare vita monastica. In poco tempo il
monastero si è riempito della servitù delle
nobilfigliuole, dando vita a momenti culturali (e non
solo) di alto livello. Dopo alcuni anni una nuova
badessa ha rimesso a posto le cose, liberando la servitù
e restaurando la vita monastica. Roba da film di Tinto
Brass. Oggi ci vivono trenta suore. In rigida clausura.
Ad Arequipa c’è anche Juanita, la
ragazzina Inca sacrificata al vulcano e trovata
mummificata dieci anni orsono. Juanita, come tanti altri
bambini inca, era stata educata appositamente dagli per
essere sacrificata agli dei delle montagne. Noi
l’abbiamo vista, e la sua storia fa impressione.
Siamo
andati a trovare i padri cappuccini della missione
ligure. Ma ormai di ligure ce n’è uno solo:
l’anziano ed energico priore. Centinaia di ragazzi fanno
capo alla chiesa dei cappuccini, che ha vari campi da
gioco (uno da calcio regolare in erba!), nonché campi
coltivati e animali che servono al sostentamento della
comunità. C’è anche un presidio medico gratuito: qui la
gente non ha i soldi per curarsi. Nella chiesa ci sono
gli strumenti musicali per la messa: batteria e altro.
Al pomeriggio sentiamo una band che si allena. In
chiesa. Assistiamo anche alla “messa delle nonne”, dove
si radunano alcune delle persone anziane più povere del
circondario, arrivate con ogni mezzo da chilometri di
distanza. La messa è all’aperto perché molte persone
sono malate, così si evita il contagio. Anche qui c’è un
frate con chitarra elettrica in mano, un frate
percussionista che suona il bombo (tamburo basso che si
appoggia a terra) e tante vecchiette con i tamburelli in
mano.
Le vecchiette peruviane sono vecchissime.
I bambini sembrano dei bambolotti con degli occhi
magnifici. Anche le ragazze qui sono graziose. Gli
uomini no.
Cena a base si carne di lama e domani si
va a Cuzco, la capitale Inca.
C’è
molta rivalità fra le città peruviane. Ad
Arequipa tutto è arequipeño, anche la birra e il
candidato alle elezioni presidenziali. A Cuzco tutto è
cuzqueño, soprattutto la birra. Cuzco è ormai una città
che vive sul turismo, in un modo o nell’altro. Ci
campano i grandi tour operator e i ristoranti che ti
pelano solo perché sei un “gringo” (non importa se
americano o meno, sei sempre gringo), ci vivono i
mendicanti e i ladruncoli che sciamano a frotte nella
centralissima Plaza de Armas.
Il centro di Cuzco, però, è una
perla che sfoggia due grandi chiese, la cattedrale e la
chiesa del Gesù, che per i discendenti degli Inca è il
cupo simbolo della conquista spagnola.
Gli
spagnoli qui non sono andati tanto per il sottile, hanno
distrutto un impero che andava dall’Equador al Cile. È
vero, era un impero giovane, con meno di 100 anni, gli
Inca non conoscevano né la ruota né il ferro né la
scrittura, però Pizzarro e soci hanno massacrato dove si
poteva, eliminato tutto ciò che raffigurava divinità
pagane, fuso tutte le opere d’arte in oro e argento e –
in ultimo – decapitato l’imperatore Atahualpa nonostante
si fosse arreso e convertito.
A Cuzco rimangono anche i resti del
convento domenicano costruito sopra il grande tempio
inca del sole. Le fondamenta poggiano su pietre giganti
e finemente lavorate dagli inca, le uniche che riescono
a resistere ai violenti terremoti di questa zona. Si
dice che in origine l’intero perimetro del tempio avesse
una fasciatura ornamentale d’oro alta mezzo metro.
Abbiamo la fortuna di avere come guida un
inca, Christian, che inizialmente fa un po’ lo spaccone:
“Parlo solo la lingua Quechua – dice in spagnolo
- conosco poco lo spagnolo”, poco dopo rivela di
sacrifici umani effettuati ai giorni nostri, “perché
la cultura inca è ancora viva”. In realtà Christian
è un professore disoccupato che assomiglia in maniera
sorprendente a Daniele Di Gregorio (chi non conosce
Daniele può trovare la sua foto su Google) e ci racconta
la storia vista dagli Incas. Vediamo imponenti
fortificazioni, templi dedicati al sole e alla luna,
entriamo nei meandri di una cultura ancora viva fra
quelli che si fanno ostinatamente chiamare “indigeni”,
arriviamo al capolavoro ingegneristico di
Ollantaytambo, dove si sperimentavano nuove colture
alle diverse altitudini, osservati dall’alto dai
sacerdoti, chiusi in un tempio imponente, elevato con
pietre provenienti da sette chilometri di distanza e
tirate sul monte diosacome.
Il Perù è un’immensa fabbrica di
povertà. I bambini dei posti turistici ti circondano
cercando di fregarti soldi o oggetti, quelli di città ti
chiedono gli spiccioli per comprarsi una cocacola. Le
vecchie signore in abiti tradizionali vogliono soldi per
farsi fotografare. Appena fuori dal centro ovunque è
miseria e disperazione.
Un
trenino sbuffante ci porta nella notte ad Aguas
Calientes, ultimo paese prima delle favolose rovine
di Macchu Pucchu. Macchu Picchu è effettivamente
come uno se lo aspetta, assurdo, imponente. Una città
agricola e religiosa edificata in soli cinquant’anni,
nel XV secolo, sulla cresta di un monte. Conservata
perfettamente come Pompei, è bella da vedere e difficile
da capire. All’arrivo degli spagnoli, nel 1534, viene
abbandonata improvvisamente e dimenticata fino al 1911.
Da quell’anno il National Geographic ne ha fatto la
capitale archeologica del Sudamerica, uno dei posti più
affascinanti della terra. Guardarla da sopra, salendo
sul picco più alto, è un’impresa faticosa ma inebriante,
le foto sono un bel ricordo. La nebbia si dirada
lasciando spazio al sole solamente quando ce ne andiamo,
accidenti. La telecamera prende una botta contro un
sasso e si danneggia, accidenti. In compenso gli occhi e
le menti sono sazi.
I
trasporti in Perù sono un azzardo: il nostro volo
per Cuzco viene cancellato un’ora prima della partenza
perché antieconomico. Il trenino delle Ande regala
panorami unici passando dentro a una forra
profondissima, solcata da un fiume dalle acque
impetuose. Va lentissimo: c’è spesso gente che cammina
sulle rotaie. Vediamo capanne di indios solitari nella
foresta pluviale. Solo alberi e il treno, per decine di
chilometri. Prendiamo un pullman locale che ci porta al
lago Titicaca, è tanto sporco che appena arrivati
portiamo i vestiti in lavanderia. La gente sul pullman
protesta: “Pelicula! Pelicula!”. L’autista,
chiuso nel suo gabbiotto non ha avviato il lettore Divx
che trasmette film messicani scaricati dal web. Otto ore
di viaggio diventano un’infinità. Il film messicano è un
polpettone assurdo: nascono due gemelline e vengono
abbandonate, una diventa cieca, riacquista la vista
prendendo una testata contro un uomo. Lo sposa, dopo un
po’ scoprono di essere figli dello stesso padre e si
suicidano. Recitazione esilarante, dai titoli di coda si
capisce che per fare l’ultimo spot della Carige ho
impiegato più persone di quante non ne abbiano lavorato
nel film.
Ecco
le isole flottanti del lago Titicaca. Costruite
dagli Uros, una popolazione locale che, nel 1300, per
fuggire al dominio inca ha deciso di trasferirsi a
vivere nel lago. Le isole sono fatte di canne,
sopra di esse si elevano case, scuole e chiese. Ogni
mese viene aggiunto uno strato di canne. E l’isola
resiste. Degli Uros sono anche le famose barche di canne
del lago Titicaca, da cui ha preso modello il Kon tiki.
Un norvegese, su quei trabiccoli di paglia, quarant’anni
fa ha
navigato dal Cile alla Polinesia.
Vediamo quattro isole, ognuna abitata da
otto famiglie. Sembra che ce ne siano almeno quaranta e
che la popolazione rimanga costante. Solo il 30% degli
Uros ha preso casa sulla terraferma, gli altri
conservano questa esistenza nomade sull’acqua, vivendo
di pesca e turismo e parlando la lingua quechua degli
antichi Inca. Un bambino gioca a pallone sull’isola, che
è più piccola di un campo da calcio, sembra una vignetta
di Mordillo: le possibilità che il pallone non
finisca in acqua sono infinitesimali.
Visitiamo
anche delle tombe pre incaiche tipo nuraghe. Panorami da
brivido. La gente del posto ci aspetta per farci
visitare le capanne, mattoni di fango e tetto di paglia.
Cercano di vendere manufatti (belli, però) e chiedono
soldi per essere fotografati.
La sera
compro un po’ di percussioni dal suono eccellente. 15
euro, a Genova ne sarebbero costati 300. Pranziamo con 5
euro (in due) e ceniamo con 12 nel miglior ristorante
della città. Doppia portata di carne e pesce. Io provo
anche le interiora di vitello fritte e innaffio con
birra Cuzqueña. Ottimo.
Le scritte in Perù a volte sono esilaranti:
Sul retro di un’auto molto impolverata: “Non mi lavo
perché amo la mia terra”
Ristorante “Da Cicciolina”
Bar “La casa delle arpie”
Ristorante “Minka”
Dietro a un taxi: “Dedico questo taxi alla memoria di
mia madre”
Dalla città di Puno, sul lago
Titicaca, ci trasferiamo sull’isola Taquile, in
cui – si dice – gli abitanti vivano in una specie di
cooperativa socialista. La cooperativa c’è, lavorano
anche i bambini. Ma sono anche tanti i bambini che
continuano a chiedere una “propina”, la mancia per
essere fotografati. Ce ne andiamo un po’ delusi per la
condizione dei giovanissimi, ma ci rifacciamo gli occhi
con i colori del tramonto sul lago Titicaca, fra Perù e
Bolivia, a 3800 metri.
Il tempo è tiranno e decidiamo di non
andare in Bolivia. L’assoluta inaffidabilità dei mezzi
di trasporto ci spinge a partire subito verso Arica, in
Cile, dove ci attende l’aereo per l’isola di Pasqua.
Vogliamo arrivare all’aeroporto con almeno ventiquattro
ore di anticipo, in modo da evitare di perdere il
preziosissimo aereo. L’impresa si rivela più ardua del
previsto. Da Puno i bus arrivano solo fino a Tacna (Perù)
e da lì bisognerà arrangiarsi per passare il confine.
I bus notturni hanno due tipi di posti, la “cama”,
dove si dorme sdraiati e la “semicama”, in pratica un
sedile normale leggermente reclinabile. Scegliamo
l’unica compagnia di bus che ha posti liberi nelle “cama”,
ma la presenza di un paio di personaggi equivoci ci fa
ritenere più prudente cambiare compagnia e posto.
Saliamo sui più quotati “San Martin”, che purtroppo
hanno libere solo le “semicama”. Ci aspettano 10 ore di
viaggio infernale, in mezzo a odori non sempre
gradevoli, signore inca con i vestiti tradizionali,
vecchi e bambini che non hanno mai visto il sapone e –
per fortuna – un paio di poliziotti che vanno a prendere
servizio a Tacna. Notte quasi insonne e all’alba –
sorpresa! – siamo in mezzo al deserto. Sono le
propaggini estreme di Atacama, che in Perù chiamano
semplicemente “desierto”, perché Atacama è cileno e i
peruviani vedono i cileni come fumo negli occhi.
Attraversiamo il deserto per ore. A Tacna
il cielo è coperto dalla sabbia. Prendiamo un taxi che
ci fa attraversare il confine: una liberazione, il Cile
rispetto al Perù è un paradiso di ricchezza e modernità.
Basta bambini che lavorano o mendicano, basta
precarietà, basta tempi aleatori. Resta, ma solo per
qualche ora, il cielo coperto dalla sabbia del deserto.
Ad Arica eravamo già stati, ma la
giornata ci serve per riprendere forze dal viaggio.
Andiamo al mare su una spiaggia lunghissima. Alcuni
coraggiosi nuotano nel freddo del Pacifico, poi
scopriamo che hanno la muta. Alle quattro il bagnasciuga
è solcato da militari che fanno footing: il confine è
conteso e Arica ospita diverse guarnigioni dell’esercito
cileno. La settimana prima avevamo visto padre e madre
in mimetica spingere una carrozzina con un bebè.
C’è vento, un paio di ragazzi fanno surf
spinti da un paracadute direzionale. Riusciamo
finalmente a visitare la cattedrale dedicata a San
Marcos (Marcos, non narcos), progettata da
Eiffel. L’interno è fantastico, tutto in ferro, con
architetture simili ai mercati comunali di fine ‘800.
C’è anche un giovane prete genovese. Una ragazza di una
quindicina d’anni canta le canzoni per la messa, è
bravissima, ha una tecnica simile a quella della Pausini.
A Sanremo metterebbe in riga tutte le concorrenti.
Ceniamo al Maracuyà, che ha la fama di
essere uno dei migliori ristoranti del sud Pacifico. A
picco sull’oceano con vista mozzafiato sulle onde.
Camerieri in livrea. Frutti di mare eccellenti
innaffiati da un “Rhein” cileno da 30 euro la bottiglia.
Simile a un Pigato, ma avrà almeno 14 gradi. Assaggio il
vino con l’aria da intenditore, almeno all’estero riesco
a fare bella figura. La fama del ristorante è meritata,
scenario spettacolare, cibo eccellente, vino ottimo,
servizio impeccabile. Chiudiamo con una bavarese al
maracuya. Cena da gran signori.
Domani ci aspetta un’intera giornata di
viaggio, 6000 chilometri per arrivare all’isola di
Pasqua.
Cani.
Il Cile è pieno di cani randagi, ma di razza. Migliaia
di cani lupo che – come recitano tutte le guide – non
sono pericolosi, anzi, sono molto affettuosi. È vero.
Però all’isola di Pasqua non ci sono solo
i cani randagi, ci sono anche i cavalli randagi, le
mucche randagie, i falchi randagi e qualche scarafaggio
domestico. L’isola è talmente piccola (come l’isola
d’Elba) che tutti gli animali domestici vivono in
libertà.
L’isola
di Pasqua
è un errore in mezzo all’oceano. Appartiene all’Oceania
geograficamente e al Cile politicamente. A 3800
chilometri dal continente americano e 1800 dal lembo di
terra più vicino (un’altra isola più piccola), è
l’angolo del pianeta più isolato in assoluto. 3900
abitanti, per la maggior parte polinesiani, discendenti
degli antichi Rapa Nui che la popolano fin dal IX
secolo.
Nel 1400 gli abitanti erano 20.000, sempre in guerra fra
loro, e già da tre secoli innalzavano i moai, i giganti
di pietra intagliati a mano e portati chissacome in ogni
angolo di questo fazzoletto di terra.
La storia di Rapa Nui è complicata e
misteriosa. I nativi erano divisi in varie tribù di due
etnie diverse, giunte sull’isola a 100 anni di distanza
una dall’altra (pazzesco raggiungere quest’ago in un
pagliaio una volta, figuriamoci due). L’etnia dominante
costringeva l’altra a fabbricare i moai, che altro non
sono che figure di antenati e rappresentano la memoria
degli uomini passati.
Verso il
1400 scoppia la catastrofe ecologica: gli ultimi alberi
vengono tagliati e improvvisamente manca la legna. Non
si possono più costruire gli utensili e le coltivazioni
vanno in malora. la civiltà dei moai implode.
La
fame porta la guerra e il cannibalismo, tutti
contro tutti. In pochi anni popolazione cala fino a un
decimo. I superstiti si nascondono in caverne scavate
trecentomila anni fa dai fiumi di lava.
Le
caverne di lava
sono un fenomeno naturale che si sviluppa nei vulcani
come l’Etna. Quando il vulcano erutta, la lava forma dei
fiumi, le cosiddette colate laviche. La parte esteriore
della colata, la crosta, può solidificarsi mentre ancora
il fiume di lava scorre al suo interno. Quando
l’eruzione finisce la lava fluisce via e sotto la crosta
solidificata si forma una caverna.
Quando arriva l’uomo bianco la guerra è
ancora in atto, e continua finché tutti i moai vengono
abbattuti. I navigatori del 1700 raccontano dei moai
abbattuti e di uno strano culto: quello dell’uomo
uccello. L’uomo uccello richiede prove di forza
spettacolari: chi ha
visto il film Rapa Nui sa che i migliori giovani
di ogni tribù a settembre affrontano a nuoto mare e
scogliere per raccogliere il primo uovo di un volatile
marino. Chi lo porta integro per primo ha grandi onori e
potere per la sua tribù. Ebbene, è tutto come il film,
scogliere a picco, isole con rocce taglienti, un mare
sempre ruggente, venti impetuosi e squali.
A inizio ‘800, l’arrivo dei bianchi porta la schiavitù e
la quasi totale scomparsa della popolazione locale. Oggi
sopravvivono 2500 nativi su 3900 abitanti.
L’isola ha una natura stupenda,
scogliere su cui si frange un oceano turchino, prati
verdi disseminati di piccoli coni vulcanici, piccoli
falchi che inseguono le automobili e volano in picchiata
sui gabbiani, che a volte non riescono a scappare.
Vediamo un falco in picchiata su un altro uccello, è una
scena da film. Anzi, qui è tutto un film, come Rapa Nui,
proiettato al cinema del paese di Hanga Roa tutti i
giorni che il Signore manda. Sono un film le centinaia
di moai disseminati sull’isola, alcuni in file
spettacolari, altri abbattuti, altri interrati, con quel
faccione e la mascella volitiva che ricorda il profilo
del capo del governo italiano di tanti anni fa. È un
film Hanga Roa, paese fatto di case a un solo piano per
via del vento, in cui la gente non sopporta più i cileni
e passa la giornata a spellare come gonzi i turisti. I
prezzi sono la cosa più aleatoria di Hanga Roa. Un taxi
può scendere fino al 30%, un’escursione con guida fino
al 40%, con i souvenir riesco ad arrivare al 50% di
sconto. In compenso l’albergatore prova a chiedere il
doppio del costo pattuito e chiede il 10% in più se si
paga con carta di credito. Siamo carne da macello.
La nostra guida è Jerôme, un
francese che ha sposato una ragazza dell’isola. Era
nell’aviazione militare a Tahiti, è arrivato fin qui e
c’è restato. Sotto un’acqua da diluvio universale ci fa
esplorare due grotte vulcaniche che sbucano a picco sul
mare con un balzo da 50 metri, il rischio di scivolare è
serio. Per tutta la nostra permanenza continuerà a
piovere a dirotto, interrompendo luce, telefono,
internet. Quando piove Rapa Nui è isolata dal mondo, non
arriva neppure l’aereo.
Vediamo
i 15 moai raddrizzati da una società giapponese, il
grande vulcano Rano Kau (foto a
sinistra), con il fondo paludoso e il cono che
confina con il mare, la spiaggia di Anakena, con i moai
sulla sabbia in un ambiente tropicale che ne fa una
delle più belle spiagge al mondo.
Spiego alla guida francese la fortuna di
essere sotto un paese come il Cile. Rapa Nui è intatta,
niente alberghi, pochissimi turisti. E lui mi risponde
con un “Grazie Cile” ogni volta che la jeep
prende una buca o che la strada sterrata si trasforma in
un torrente. “Jerôme”, gli dico, “tu che hai
lavorato a Montecarlo, hai visto com’è diventata la
Costa Azzurra, case e alberghi. Vuoi che Rapa Nui
diventi cosi?”. Toccato nella grandeur, il francese
non risponde.
L’aereo
del ritorno sta per partire e la pioggia ci ha impedito
di vedere il vulcano Rano Raraku. Alle otto del
mattino prendiamo un taxi insieme a Jeff, un tedesco che
ha speso milioni per arrivare fin qui e non ha visto
niente per via della bufera. Arriviamo al vulcano, è la
botta finale. Decine di moai disseminati sulle pendici a
grappoli, le cave dove venivano scavati. Scoppia un
temporale improvviso, ci ripariamo nel buco lasciato
sulla montagna da un moai di 21 metri. Siamo in un punto
vietatissimo al pubblico, ma è l’unico riparo dai
fulmini, e non c’è nessuno. Ci sentiamo un po’ come i
profanatori delle piramidi. Abbraccio un altro moai in
costruzione, addio Isola di Pasqua. Smette di piovere e
scendiamo il pendio a rotta di collo: il tassista ci
aspetta ancora (grazie alla Manu che si è fermata con
lui). Di corsa all’aeroporto, il tergicristallo è rotto,
il tassista ha inventato un meccanismo con una corda per
tirarlo e un elastico che lo fa ritornare nella
posizione di fermo. Genialità alla Charlie Chaplin.
Arriviamo all’aereo quindici minuti prima della
partenza. A malincuore: Rapa Nui è l’ultimo gioiello
selvaggio di questo pianeta.
L’aereo parte sotto la tempesta, bucando le
nuvole arriva al sole. Sei ore dopo siamo in un
ristorante argentino a Santiago. La musica di Gardel
parla di Buenos Aires, del suburbio, del barrio di San
Telmo, la Boca e gli Xeneises. Ecco, c’è già aria di
casa.
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